Lei si chiama Achinoam, non Carmela, icona glocal di un canto antichissimo, così vicino, così lontano. Voce di tufo e deserto, di mare e di vulcano, se è mai possibile, di distanze che uniscono, di rigore che non cozza con la passione. Strange days, sono strani tempi davvero se “’a reggina ‘e Napule” non si chiama nemmeno Maria, ma viene da Tel Aviv, tempi confusi, eppure è affascinante veder continuare il drammatico viaggio dei bastimenti napoletani per terre così lontane, oppure tornare finalmente a casa nel canto libero del cardillo del Mediterraneo. La scugnizza d’Israele, yemenita a New York, sa che “La vita è bella” perché sa cantare, ma anche ascoltare. Nei suoi viaggi-tournèee ha raccolto voci e melodie, versi e storie, emozioni e racconti, ma s’è ritrovata solo nel corpo di Napoli, immergendosi gradualmente, ostinatamente, profondamente nelle viscere della città porosa, in un patrimonio canoro vicino alle sue corde, alla sua ugola cristallina, al suo cinguettare pallido.
I classicissimi più usurati, come “Torna a Surriento”, trovano nuova vita, ed è un miracolo, come il melodicissimo contrappunto di “Era de maggio”, l’affondo feroce di “Sia maledetta l’acqua”, la tenerezza di “Nonna nonna” per la prima volta in lingua ebraica. Se “Noa-Tel Aviv” ha portato nella Terra Promessa e Divisa e Ferita e Combattuta il pianeta Cantanapoli, in questo “Noa sings Napoli” nasce una nuova città, Noapolis, metropoli così nobile da meritare il ritorno del canto delle sirene. Il Solis String Quartet, Gild Dor e Zohar Fresco costruiscono trame delicate, cameristiche, ma mai snob, da concertino che vorremmo tutti ritrovare nel sogno di una notte di mezza estate, nel mondo fatato delle canzoni popolari, delle emozioni che resistono al logorio del tempo perché esistono artisti capaci di rilanciarle, trasportarle nel mondo del presente, assicurando loro il passaporto per il futuro.
Noa è Carmela e Maria, è l’ultima luciana anche se non è nata a Santa Lucia, è l’ultima cartulina ‘e Napule, anche se ha dovuto lavorare duro e tanto per impossessarsi quasi perfettamente del dialetto dei sommi Bovio e Di Giacomo. Noa balla la “Tammurriata nera” con la consapevolezza del suo dna frutto di incroci, culturali, razziali, “non sono bianca, non sono nera”, si tormentava da ragazzina alla ricerca della sua identità. Che è armonia perduta, come il canto di Caruso e di Pasquariello, come una villanella smaniosa, come gli echi di fronne e vutate che la cantante fa suoi con spietata maestria, con la saggezza di una virtuosa che non sacrifica nulla sull’altare della tecnica. In “Fenesta vascia” ogni legato, ogni sospiro, ogni pausa, ogni finale prolungata è colpo al cuore e balsamo sulle ferite, elogio eufonico e macchina del tempo che permette di arrestare la corsa contro lo stress che ci corrode quotidianamente. Noa trillo, Noa acuto, Noa basso profondo, Noa serenata sul mare, Noa sciantosa senza ammiccamenti, Noa malinconia, Noa appocundria, Noa verace, Noa “Autunno”, Noa profumo di maggio, Noa sfrontata, Noa eco d’Oriente, Noa voce d’Occidente.
Benvenuti a Noapolis, bentornati a Napoli
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